Pranzi di nozze - coletteunavitadagolosa

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  Colette era arrivata a Parigi nel 1893, come moglie di Willy, sposato a Chatillon il 15 maggio. Il marito si chiama in realtà Henry Gautier-Villars e appartiene alla famosa dinastia di editori di opere scientifiche. Libertino impenitente e adoratore di adolescenti, egli rappresenta la pecora nera di una famiglia di cattolici praticanti, rispettosi della quaresima e del digiuno il venerdì. Per il figlio vorrebbero un matrimonio vantaggioso, un’alleanza di patrimoni. Colette è senza dote e loro non partecipano alla cerimonia, che si svolge alla chetichella. Il pranzo di nozze è semplice, ma très bon. A Parigi, vanno a vivere nella garçonnière scura e polverosa di Willy, piena di giornali ingialliti, di schedari e di cartoline pornografiche, al numero 55 del Quai des Grands-Augustins. Le uniche cose nuove sono le pentole, mai usate. La mattina, i due  attraversano il Pont Neuf e vanno in una cremeria a prendere una cioccolata calda e un croissant indurito. A pranzo mangiano in una brasserie, la sera sono spesso a cena fuori dai conoscenti di Willy.
 
   Qualche mese dopo, traslocano al 28 di rue Jacob. La cucina è dall’altra parte del pianerottolo, i muri delle stanze sono coperti da migliaia di confetti a losanghe, incollati dal precedente inquilino. La sera, dopo i concerti o il teatro, Colette sonnecchia dondolando le gambe, un sorbetto al limone la risveglia e la riporta alla vita. A volte, nell’appartamento scuro, dove la stufa sta accesa da settembre a giugno, l’assale la tristezza. Per combatterla, ingolla, “come una scimmia”, quantità enormi di banane, oltre a mucchi di bonbon e di cose dolci. Ma, abituata ai cibi sostanziosi della Borgogna, deperisce e ha un colorito malsano. Rifiorisce solo quando va a trovare la famiglia di Willy in campagna, dove divora grandi quantità di tartine con il burro e di marmellata fatta in casa. Nelle lettere a Sido non confessa la sua nostalgia, le racconta solo le delizie della vita parigina. Descrive gli animali posseduti dagli eccentrici personaggi che incontra: le lucertole verdi,i topolini bianchi che corrono sulle spalle della padrona, i ghiri e le bisce tenuti come animali da compagnia. Le narra di una carretta carica di galline che si rovescia su una strada di Montmartre. I versi striduli degli animali spaventati le fanno esclamare: “Ma questa è Saint-Sauveur!”

Si ammala. La madre viene a curarla e le compra le primizie dagli ortolani di rue de Buci: le fragole, i cuori di lattuga, le cipolle rosa… E poi le cucina il carré di agnello. Un amico le porta il Quillet al cioccolato comprato nella pasticceria omonima, Léontine de Caillavet le porta gli ananas e le pesche. Passa la convalescenza in Bretagna, a Belle-Isle-en-Mer, dove fa il bagno, si arrampica sulle rocce e si nutre di pesce, poi a Champagnole, nello Jura, dove si alza all’alba per andare a raccogliere le more selvatiche. A pranzo e a cena mangia le trote appena pescate, i gamberi, le quaglie, le lepri e le pernici cacciate di frodo. Scrive il primo libro della serie Claudine, che Willy getta in fondo a un cassetto. Lo riesumerà in occasione del trasloco in rue de Courcelles 177 bis, l’appartamento in cui la coppia tiene salotto tutti i mercoledì pomeriggio. Se i visitatori arrivano all’ultimo momento devono affidarsi à la fortune du pot e mangiare quello che c’è. Dagli altri Colette si fa apprezzare come padrona di casa dallo stile rustico e pieno di calore. Il suo buffet è ricco di petit four, di foie gras, di caviale beluga, di panini a più strati, di fragole, di piccoli piatti allo zenzero. Gli ospiti bevono lo champagne e sorseggiano gli jézabel, i cocktail di bevande alcoliche creati e miscelati secondo l’immaginazione di ognuno. E “accovacciata all’orientale davanti al marmo del focolare”, come Claudine, lei fa sciogliere il cioccolato sulla fiamma del camino con l’aiuto di un grill quadrato fatto di fili d’argento, e ne solleva con la punta del coltello delle “sottili lamelle, per prolungare il gusto squisito di mandorla tostata e di gratin alla vaniglia.”
 
   In Claudine se ne va, la protagonista riceve una visita inaspettata mentre è intenta a tostare il cioccolato. Non per questo interrompe l’operazione.
“- Era quasi cotto al punto giusto, non potevo lasciarlo, capite?- Ella tiene un piccolo grill quadrato di filo d’argento, su cui si sta scurendo e gonfiando una tavoletta di cioccolato tostato.
- Ma questo attrezzo non è l’ideale, sapete, Renaud? Gli hanno fatto un manico troppo corto e ho una vescica sulla mano, guardate!-
- Fa vedere.-
Il suo grosso marito si china, bacia teneramente la fine mano scottata, la accarezza con le dita e con le labbra, come un amante…
- È guarito, è guarito- grida Claudine battendo le mani. - Mangeremo la grigliata noi due, Annie.-
Per far piacere a Claudine, accetto dei pezzetti di cioccolato tostato, che sa un po’ di fumo e molto di pralina.
- È divino, no?-”        
 
   Alla fine dell’estate va a Bayreuth con il marito ad ascoltare Wagner. Per reggere il ritmo estenuante dei concerti, delle mostre e delle prime, si tiene su con le salsicce calde e con i dolci carichi di panna, che le piacciono tanto.
Quando torna a Parigi, vorrebbe sottrarsi per un po’ ai riti mondani, di cui si sente prigioniera. Ha nostalgia della vita di provincia, del cibo che vi si mangia, della libertà di andare e venire senza rendere conto a nessuno. In primavera si rifugia nella tenuta dei Monts-Boucons, vicino a Besançon, appena acquistata da Willy, dove ridisegna il giardino con boschetti e piccole alture, trasforma una grotta in un luogo dove isolarsi, si occupa degli afidi dei meli. Si gode il sole, si rimpinza di pesche dal cuore viola e di ciliegie purgative, si nutre di purea con i tartufi, di torte alla frutta e di minestra di ciliegie sciroppate, tipica della regione. Vive per mesi in una solitudine da berger, in unione perfetta con la natura. Le tengono compagnia i gatti, i cani, un vecchio cavallo, le rondini, le bisce e cinque piccoli rapaci appollaiati sugli alberi. Passeggia, fantastica, rivive l’infanzia, andando incontro all’aurora come quando era bambina.

Scrive le continuazioni di Claudine, per la quale i gamberi hanno lo stesso potere evocativo delle madeleines per Proust.
“Mi sfugge un piccolo gemito di cupidigia, suscitato dalla scia di profumo di un piatto di gamberi che passa vicino.
- Anche i gamberi! Ecco, ecco! Quanti?-
- Quanti? Non ho mai saputo quanti riesco a mangiarne. Dodici, per cominciare, poi si vedrà…- - Oh, i gamberi! Se sapessi, Renaud… A Montigny 5) sono molto piccoli, andavo io stessa a prenderli al Gué-Ricard con le mani, entrando nell’acqua a piedi nudi… Questi sono pepati in modo perfetto.-”
 
   Quando viene Willy, gli fa trovare la choucroute e i funghi alla panna, due dei gros plats che gli piacciono tanto e che lo fanno ingrassare. Mangiano grandi quantità di cibo anche quando decidono di non cucinare, come scrive in Almanach de Paris An 2000 .
“Il giorno in cui non si cucina, un bicchiere di latte qui, una lamella di prosciutto là, la minestra di ciliegie sciroppate con dei crostini di pane fritti, poi si finisce il formaggio avanzato... È spaventoso quello che si riesce a ingurgitare quando si decide di non mangiare.”.
E’ il nome del paese che nella serie di Claudine adombra Saint-Sauveur, paese natale della scrittrice.
 
Lei e Willy divorzieranno nel giugno del 1910, dopo anni di separazione. Nel libro Il mio noviziato, Colette si vendicherà dei suoi tradimenti, anche se è grazie a lui che ha avuto delle amicizie importanti e ha approfondito il gusto creativo iniziato da Sido.

Alle 16.30 del 19 dicembre del 1912 Colette sposa il barone Henry De Jouvenel, detto Sidi. La cerimonia è breve, i festeggiamenti meno. Per una settimana gli invitati passano dal pranzo alla cena e dalla cena al pranzo, fino al veglione della vigilia di Natale. “Abbiamo chiuso la nostra settimana di bagordi coricandoci alle 7 del mattino”. Gli eccessi causano a Colette un’enterite. Malvolentieri, si mette a dieta. Gli sposi vanno a vivere in uno chalet di stile svizzero un po’ falso e volgare, al 57 di rue Cortambert. Un giorno, la figlia di un amico trova la scrittrice intenta a pulire i fagiolini da mettere in barattolo. A Corrèze, nel castello del marito, ricrea il giardino di Sido. “Dovresti vedere in che stato sono le mie mani e le mie braccia dopo che ho estirpato le ortiche e potato i cespugli di rose! - scrive a un’amica – Qui non c’è nessuno, solo mille animali, del cibo semplice all’aglio, un bel paesaggio, il silenzio... e un burro all’altezza del migliore della tua regione”. La governante inglese della figlia, nata il 3 luglio 1913, è una brava cuoca e prepara per lei le meringhe al cognac farcite di crema. Il marito, fine gourmet, organizza degli itinerari gastronomici. Lei ingrassa, ma non se ne cura. “Mangiamo molto e bene” scrive a Sido, che trova che la figlia abbia “un peu trop de quoi s’asseoir”, un posteriore un pò troppo grosso.

Si moltiplicano gli impegni sociali, editoriali, giornalistici a cui far fronte. Come critico teatrale torna a casa alle due di notte e il mattino sonnecchia alla scrivania del giornale. Quando si sveglia, ha una fame da lupo e trangugia cibo come un mostro. Nel 1921 il marito è eletto senatore. In una lettera a Proust, che le ha inviato una copia dei Guermantes e di Sodoma e Gomorra, Colette spiega che la causa del ritardo nel rispondergli è stato il giro elettorale del marito. Quando traslocano in boulevard Suchet, Colette organizza le cene per gli ospiti, che a volte raggiungono l’ottantina e fra i quali c’è anche il presidente della Repubblica. Lei dispone i coperti in modo originale: alla sua destra c’è l’ospite più importante, alla sua sinistra c’è la cagnetta Pati-Pati, poi seguono gli altri. In Bella Vista Colette elenca i piatti che soleva condividere con la cagnetta:
“Abbiamo avuto, Pati ed io, la zuppa di pesce, vellutata e generosamente rinforzata di aglio, una grossa porzione di maiale arrosto alla salvia, fiancheggiato da mele e patate, del formaggio, della confettura di pere aromatizzata alla vaniglia, delle mandorle secche, una caraffa di vino rosato locale. Mi auguro che due settimane di una dieta simile abbiano riparato i danni di due bronchiti.”

Quando non è impegnata con i doveri o si stufa di fare la brava signora borghese, chiama Francis Carco, il pittore e scrittore che certi giorni sopravvive rubando il pane e il latte depositati all’ingresso di servizio delle case borghesi. Va in giro con lui nei quartieri malfamati, a parlare con ladri e prostitute, prima di bere un bicchiere di vino e a mangiare qualcosa in un bistro delle Halles. Colette ha una relazione con il figliastro Bertrand. Il marito non approva, ma per alcuni anni divide ancora con lei la casa e la carriera, fino a quando non esplode lo scandalo. Per caso, si ritrovano tutti in Algeria, dove la scrittrice rimpinza di couscous e di datteri il giovane amante, come in Chéri - il libro che la porta quasi alla rottura con l’editore, rottura sanata con l’invio di una coppa di cristallo blu piena di deliziosi cioccolatini – la matura Léa rimpinza di fragole e di caffelatte – il famoso caffelatte della portinaia - l’innamorato ragazzo.

“Un certo café au lait de concierge di cui ho parlato in Chéri ha risvegliato molte curiosità, che io ho lasciato – per così dire – inappagate. Una volta una portinaia mi ha dato la ricetta di una colazione adatta a scacciare i brividi  dei mattini invernali.
Prendete una piccola zuppiera, quella individuale che si usa per gratinare le minestre oppure una grossa ciotola di porcellana da fuoco. Versatevi il caffelatte zuccherato e dosato secondo il vostro gusto. Preparate delle belle fette di pane – pane casereccio, quello inglese non è adatto- imburratele generosamente e posatele sul caffelatte, che non le deve sommergere. Non rimane che mettere tutto nel forno. Tirate fuori la vostra bella colazione solo quando è di un bel colore brunito e croccante, quando esplode in grosse bolle oleose.
Prima di rompere lo strato di pane, gettatevi una spolverata di sale. Il sale morde lo zucchero, lo zucchero leggermente salato è un grande principio trascurato dalla pasticceria parigina, che è più insipida senza un pizzico di sale.”  

   Henry chiede il divorzio e Colette parte per il sud della Francia, dove tiene una serie di conferenze e di spettacoli. A Nizza, il clima delizioso della Riviera, il mare e i fiori danno una tregua ai suoi conflitti. “Sto lottando contro la tristezza con un appetito intenzionale, diretto in gran parte verso i frutti di mare.” Ma il cibo - il delizioso scorfano farcito, i piatti conditi con l’aglio, il timo e l’olio d’oliva, il vino rosato che accompagna il melone, la pesca sugosa - non bastano. Distoglie il pensiero da boulevard Suchet perché sa che quando tornerà troverà la casa vuota.
Mangiare è il solo modo di dimenticare il dolore e di scongiurare la cattiva sorte. Quando rientra a casa, evita la sala da pranzo, che chiude accuratamente e si porta il cibo in camera sopra un vassoio. “È lo spuntino delle donne sole”dice. Passa l’estate in Bretagna, a Rozven. “Il fascino della villa di mattoni affacciata sulla spiaggia deserta di dune sabbiose non colpisce immediatamente, ci si affeziona col tempo” scrive alla madre. Nuota tre volte al giorno, pesca i granchi e i gamberetti. A volte esce a pescare anche di notte, con la luna piena. Strappa le erbacce dal giardino, scava una scalinata nella collina dietro la casa. Malgrado l’attività fisica intensa ha ormai raggiunto gli ottanta chili, è una grossa tritonne, la cui ciccia fa capolino dai buchi del costume traforato. “Ho l’aria di una gruviera in lutto”dice.  Gioca a fare la matriarca con le scrittrici sue ospiti. “Gli uomini vanno e vengono – scrive nel libro La Vagabonda - ma due donne immerse l’una nell’altra non immaginano neppure di separarsi, si identificano completamente, soffrono come un solo corpo.” Il figliastro Bertrand la preoccupa con la sua mancanza di appetito. È oltraggioso che non abbia fame a colazione, che rifiuti l’anatra arrosto fredda o la pelle dell’oca in casseruola che lei gli offre. Il pomeriggio, Colette va a visitare le nasse per gli astici e sceglie quelli per il court-bouillon della cena. Le piace divorarli immersi nel loro guazzetto, a base  di vino bianco e di spezie, con aggiunta di burro e di prezzemolo.
“Da un lato ci bagnava la pioggia fine e vaporizzata del bordo del mare, che ammanta le guance e i capelli di un velo d’argento, dall’altro ci asciugava il vento. Solo la fame ci spingeva verso la nostra grande casa di legno, che odorava di nave. Io mi inerpicavo in fretta su per la scala, impaziente di annusare i piccoli astici in brodo, le fette di tonno con lo scalogno, spesse come quelle di vitello; saltavo su per i gradini lasciandovi il segno dei miei piedi nudi, freschi e umidi come quelli di una selvaggia.” racconta nel Ritiro sentimentale.
 
   Nel maggio del 1921, a una cena a casa di amici, conosce Maurice Goudeket, di diciassette anni più giovane, “gemello della Tour Eiffel”. Colette, “capelli corti e ondulati, occhi maliziosi, faccia appuntita”, è sdraiata prona sul sofà. Appena si siede a  tavola, afferra una mela dal cestino della frutta e le dà un morso,  divertita dall’effetto che produce sui commensali. L’impressione di Maurice è che esageri i gesti. Quando le versa il vino, lei gli lancia un’occhiata di compiacimento. Si rivedono in Costa Azzurra, poi nell’alloggio di lui a Parigi, grazioso ma freddo. Seguono altre cene, altre serate passate a parlare, con “orge di acqua minerale, di arance, di pompelmi e di sigarette”. Colette abita in un piccolo alloggio all’ammezzato del Palais Royal che lei chiama il tunnel. Uno dei suoi amici dice che in stanze con il soffitto così basso l’unico cibo  che si può mangiare è la sogliola.
La cosa positiva è che non c’è bisogno di scale per appendere le tende. Quando le viene l’artrite per la troppa umidità, il medico le ordina di andar via. Allora compra una casa a Saint-Tropez e si trasferisce all’Hotel Claridge, in due piccole stanze al sesto piano, sugli Champs Elysées. Nell’armadio a muro, trasformato in cucinino, prepara piatti semplici con la verdura che le arriva dal suo orto in Costa Azzurra. Come dessert, mangia gli éclairs, i lunghi bignè ricoperti di cioccolato. I piatti più elaborati arrivano dalle cucine del ristorante, dopo che lei ha scelto quello che vuole sul menu che il maître le sottopone. A volte scende nella hall a mischiarsi con l’umanità cosmopolita che vi staziona. Per salvare le apparenze, Maurice Goudeket vive nella stanza accanto. Si sposeranno il 3 aprile 1935. Il piatto forte al pranzo di nozze sono gli zampetti di maiale.

“In quel giorno di primavera dalla temperatura invernale il menu del pranzo di nozze non è venuto meno alle promesse. Consisteva in zampetti di maiale cotti in pentola, che si scioglievano in bocca, rivestiti del loro lardo rosato e della loro cotenna, immersi in un brodo che profumava di sedano, di noce moscata, di rafano e di tutte le salutari verdure che sono le serve aromatiche della carne padrona. Abbiamo anche avuto le crêpe.
Ci si sposa senza champagne? Sì, se lo champagne viene eclissato dall’incontro con uno di quei vini anonimi che ravvivano le nostre locande francesi, scuro e dorato come selvaggina spagnola, in grado di reggere il confronto con il maiale e i formaggi…” racconterà più tardi la scrittrice in L’Ėtoile Vesper.  
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